Clima
15 Dicembre 2015
Siamo giunti al Paris Agreement: una svolta nella lotta ai cambiamenti climatici, ma si poteva fare di più
Legambiente, come molte altre associazioni ambientaliste, si dichiara soddisfatta, ma puntualizza ciò che può essere fatto per migliorare l’accordo e renderlo più stringente
Dopo 13 giorni di discussioni e vere e proprie “contrattazioni”, la Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, che si è svolta a Parigi è finalmente arrivata ad un accordo: il Paris Agreement. Si tratta di un patto vincolante che rappresenta una vera svolta nella lotta ai cambiamenti climatici, anche solo perché sono stati 150 i Capi di Stato ad essere intervenuti, 185 Paesi che da soli producono il 90% delle emissioni globali. Una bella differenza rispetto all’Accordo di Kyoto che era riuscito a coprire solo il 12% delle emissioni. Molte associazioni ambientaliste si considerano soddisfatte perché alcuni punti fermi importanti sono stati segnati, ma diciamocelo, si poteva fare di più.
Lo dice anche Vittorio Cogliati Dezza, fino a pochi giorni fa Presidente di Legambiente. Pur affermando come l’accordo «vada in modo irreversibile verso un futuro libero da fossili», aggiunge che «gli impegni già annunciati alla vigilia della COP, secondo le prime valutazioni, se rigorosamente attuati sono sufficienti a ridurre soltanto di un grado circa il trend attuale di crescita delle emissioni di gas-serra, con una traiettoria di aumento della temperatura globale che si attesta verso i 2.7- 3°C. Non consentono, quindi, di contenere il riscaldamento del pianeta ben al di sotto della soglia critica dei 2°C, e ancor meno rispetto al limite di 1.5°C. È cruciale, pertanto, una revisione di questi impegni non oltre il 2020 e purtroppo l’accordo lo prevede solo su base volontaria, rimandando al 2023 la prima verifica globale degli impegni. È invece urgente farlo prima del gennaio 2021, quando il nuovo accordo sarà operativo.»
Una delle novità dell’accordo è infatti il meccanismo di revisione e controllo quinquennale che permetterà da una parte di adeguare gli obiettivi al mutare delle condizioni e dall’altra di misurare quanto è stato fatto da ciascuno Stato in un lasso di tempo relativamente breve.
Nel testo ciò che viene subito specificato è che l’obiettivo che si intende raggiungere è quello di restare «ben al di sotto dei 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali», mentre ci sarà l’impegno finalizzato a «portare avanti sforzi per limitare l’aumento di temperatura a 1,5 gradi». Ma come abbiamo visto, se venissero applicati gli INDC (Intended Nationally Determined Contribution) che ciascun Paese ha al momento deciso per se stesso, sarebbe impossibile raggiungere l’obiettivo prefissato.
Uno dei nodi fondamentali che si prospettava difficile da risolvere è stato quello della “differentiation”, il principio secondo cui si deve distinguere tra Paesi sviluppati, Paesi in via di sviluppo e Paesi particolarmente fragili. Si è deciso di proseguire ciò che era stato stabilito con l’Accordo di Copenaghen, ma che finora non è stato rispettato: la mobilitazione di 100 miliardi di dollari l’anno, da parte dei Paesi sviluppati, che andranno ad alimentare il Green Climate Fund (GCF) in favore di quelli in via di sviluppo. Questa somma potrà poi essere implementata nel 2025.
Notevole importanza all’interno del patto avrà la trasparenza: si vuole «creare una fiducia reciproca» finalizzata a realizzare «un sistema di trasparenza ampliato, con elementi di flessibilità che tengano conto delle diverse capacità». Cionondimeno gli Stati saranno tenuti a presentare regolarmente un report dell’inventario nazionale delle emissioni, preparato utilizzando le metodologie accettate dall’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) e approvate dalla Conferenza della Parti dell’Accordo di Parigi. Dovranno inoltre fornire le necessarie informazioni che permettano il monitoraggio dei progressi relativi all’implementazione e al raggiungimento del proprio INDC.
La firma ufficiale del trattato avverrà il 22 aprile 2016 a New York, mentre per l’entrata in vigore si dovrà aspettare fino al 2020. Nel frattempo le varie parti avranno il tempo di ripensare agli impegni presi. L’Italia si sta già muovendo per portare avanti i progetti previsti dagli accordi bilaterali stipulati durante la COP21, con le isole del Pacifico, con paesi dei Caraibi e delle Maldive, con il Botswana, il Lesotho e l’Egitto e presto anche con Panama. Verranno inoltre trasferiti fondi alla Banca Mondiale per finanziare progetti in Africa per la produzione di energia elettrica off-grid in villaggi non raggiunti dalla rete principale.
Per quanto riguarda l’Europa, Legambiente ritiene che deve puntare a obiettivi più ambiziosi, alla conversione completa alle rinnovabili, alla Green Economy: dal 1990 al 2014, periodo nel quale si è manifestato un disaccoppiamento tra riduzione delle emissioni ed aumento del PIL, le emissioni sono diminuite del 23%, mentre il PIL è aumentato del 46%. Questo significa che scegliere la giusta direzione è possibile e porta benefici anche economici che riescono poi ad inviare in modo automatico la direzione più giusta per noi e per l’ambiente.
Per scaricare il testo completo dell’accordo clicca qui.
Articolo a cura di Rossana Andreato