Acqua
18 Giugno 2016
Non poteva mancare a Festambiente Vicenza 2016 un appuntamento in cui raccogliere e affrontare le preoccupazioni che la popolazione, non solo di Vicenza, ma di molti paesi della Provincia di Verona, Vicenza e Padova, sta vivendo sul tema “PFAS”, o sostanze perfluoroalchiliche che dir si voglia. Si tratta di sostanze classificate come potenti “interferenti endocrini”, che da 30 anni inquinano questi territori a partire da Trissino, paese diventato noto perché vi ha sede la Miteni, l’unica azienda in Italia che produce questo tipo di composti e che ora è l’accusata numero uno, per quello che da qualche esperto è stato definito “il più grave disastro ambientale dopo Seveso”.
I dati delle prime analisi sul sangue di un campione di cittadini dei Comuni più colpiti e sugli alimenti, che a detta delle associazioni e degli esperti che stanno seguendo la questione, sono arrivate tardi e sono comunque incomplete e grossolane, hanno già rivelato concentrazioni preoccupanti di queste sostanze, che avrebbero quindi raggiunto la catena alimentare.
E proprio di concentrazioni si è parlato, perché è intorno a questo che ruota tutto: stiamo parlando di sostanze che sono pericolose a livelli bassissimi, ma per le quali in Italia non esistono limiti obbligatori da rispettare, ma solo limiti di performance, praticamente dei limiti di riferimento.
Alla presenza del Dr. Edoardo Bai e del Dr. Vincenzo Cordiano, di ISDE-Medici per l’ambiente, di Angelo Guzzo, di Acque Vicentine, di Paolo Zanni, segretario della CGIL di Vicenza, di Giorgio Zampetti, responsabile scientifico per Legambiente Nazionale e Luigi Lazzaro, Presidente di Legambiente Veneto, che ha fatto da moderatore, si sono ripresi i punti sui quali si cerca di porre l’attenzione ormai dal 2013, all’inizio ottenendo come reazione immobilità, scetticismo e anche qualche accusa di “procurato allarme”. Ora le cose si stanno sbloccando, ma come è stato più volte sottolineato, la priorità dovrebbe essere quella di far cessare la condizione di inquinamento elevato alla quale si è arrivati, ovvero di bypassare le fonti di approvvigionamento d’acqua inquinata per trovarne altre a monte che siano più sicure. Questo non si sta ancora facendo, come non si pensa ancora minimamente alla bonifica.
Attualmente come soluzione i Comuni più interessati dall’inquinamento da PFAS si sono dotati di filtri a carboni attivi, che secondo Angelo Guzzo sono al momento l’unica soluzione prontamente attuabile. Questi filtri costano però 600.000 euro l’uno, vanno cambiati ogni 4 mesi e il loro costo ricadrà inevitabilmente sulla collettività, come a dire che “al danno si aggiunge la beffa”.
Uno dei punti salienti della discussione è stata la descrizione della gravità davvero preoccupante della situazione: come ha specificato Luigi Lazzaro sono 200 i kg di questi inquinanti che vengono immessi ogni anno nell’ambiente, 540 miliardi di nanogrammi ogni giorno. A livello nazionale però i limiti di tolleranza sono molto elevati, se confrontati per esempio con quelli degli Stati Uniti, abbassati, dopo lo scandalo Du Pont fino a 70 nanogrammi/l. Ciò nonostante nell’agosto 2015 sono stati praticamente triplicati: si è passati da un limite di 500 nanogrammi/l, in totale, per le 10 tipologie di PFAS (esclusi PFOS e PFOA), a situazioni in cui si sono raggiunti anche i 2030 nanogrammi/l. Responsabile della decisione l’Istituto Superiore di Sanità, che lo ha fatto su richiesta del gestore dell’acqua. Per fortuna a gennaio 2016 si è ritornati ai limiti di prima. Lo racconta il Dr. Vincenzo Cordiano che con il Dr. Edoardo Bai è stato autore dello studio epidemiologico di ISDE-ENEA sulla mortalità da PFAS.
Si tratta di uno studio che ha interessato 150.000 persone. I dati trattati sono quelli contenuti nella banca epidemiologica di ENEA e nel registro tumori per le provincie di Padova, Verona e Vicenza. Contando i tumori in essere e le persone malate nei Comuni colpiti dalla contaminazione, si è visto che c’era un incremento dei casi in cui si verificava un aumento dei livelli di colesterolo nel sangue; alterazioni della tiroide; colite ulcerosa; ipertensione in gravidanza; tumori del testicolo e del rene. A questi effetti se ne aggiungevano altri, conseguenza, come ha spiegato Edoardo Bai, del fatto che PFAS, PFOS e PFOA «non sono principalmente sostanze cancerogene, ma sono forti interferenti endocrini, è per questo che sono tossici a così basse concentrazioni».
Ma la salute non è l’unica cosa che rischia di essere compromessa a causa di questa vera e propria emergenza. Come ha spiegato Paolo Zanni, il rischio è che come al solito, se qualche provvedimento verrà preso, ciò sarà fatto a scapito dei lavoratori, che inconsapevoli, in anni di lavoro alla Miteni, hanno contribuito a rendere critica la situazione. L’azienda, già prima che scoppiasse il caso, non navigava in buone acque e ora il pericolo concreto è che gli operai, tra i soggetti più a rischio per l’intensa esposizione alle sostanze perfluoroalchiliche subita, vengano lasciati a loro stessi, sia per quanto riguarda le condizioni di salute, che quelle lavorative.
Come ha sottolineato Giorgio Zampetti: «bisogna iniziare a ragionare in maniera seria e concreta sulle alternative». Serve un piano degli interventi che individui le priorità, ma soprattutto che sappia trovare una soluzione , non distruggendo ancora altre risorse, compresa la forza lavoro, ma cercando di recuperate quelle compromesse da una situazione che si è protratta tra illegalità, mancanza dei controlli e silenzio complice, per fin troppo tempo.